Restammo lì un pezzo seduti per terra. Si sentiva che tutti e due volevamo dirci qualcosa, ma non si sapeva da dove cominciare, anzi non si sapeva nemmeno cosa. Pareva un impulso prezioso, ma inesprimibile. Tutt’a un tratto sentii il canto degli uccelli. C’era anche prima, ma ora lo sentivo. In principio pareva un garbuglio di note intrecciate, ma un po’ alla volta si distinguevano le voci e gli schemi dei suoni. Erano uccelli che si chiamavano, ciascuno a suo modo. Renzo si mise a dirmi di che uccelli erano le voci e le conosceva come gente del suo paese. Poi si mise a chiamare anche lui,e quelli gli rispondevano, e io stavo lì come uno sciocco a sentire questi scambi, ma dopo un po’ ci presi gusto, e presto li seguivo assai bene; come all’estero quando in certi momenti si dimentica del tutto che si è stranieri, altra bestia, e di queste bestie non si sa quasi niente, tranne che sono ben fatte anche loro, e indubbiamente si credono al centro del mondo; e allora ti senti dentro una vita che normalmente non consideri tua, e anche senza veramente sapere la lingua, la capisci; perché per capire le lingue la cosa più importante non è saperle.
Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Mondadori, 1986, pagg. 146-147