La notte non è che buio e silenzio, d’inverno. Sentiamo i pesci sospirare sul fondo del mare, e chi sale sui monti o sulle colline più alte può ascoltare il canto delle stelle. I vecchi, detentori di una saggezza che si nutre d’esperienza, sostengono che lassù non ci sia nient’altro che distese gelate e pericoli mortali. Moriamo se non ascoltiamo quel che c’insegna l’esperienza, ma ammuffiamo dentro se vi pretsiamo troppa attenzione. Da qualche parte è scritto che quel canto è capace di risvegliare in te la disperazione o il divino. Salire sui monti in una notte serena e scura per cercarvi la follia o la beatitudine, forse allora la vita è servita a qualcosa. Ma non sono molti coloro che si azzardano a un simile viaggio, ti consuma le scarpe costose, e la veglia notturna ti rende incapace di affrontare i compiti della giornata, e chi svolgerà il tuo lavoro, se non ne hai le forze? La lotta per la sopravvivenza non si accompagna bene alle fantasticherie, la poesia e il baccalà sono inconciliabili, e nessuno si sazia lo stomaco dei propri sogni.
Jon Kalman Stefansson, La tristezza degli angeli, Iperborea, 2012, pag. 27.