Su per le colline verso la campagna, la mia isola ha straducce solitarie chiuse fra muri antichi, oltre i quali si stendono frutteti e vigneti che sembrano giardini imperiali. Ha varie spiagge dalla sabbia chiara e delicata, e altre rive più piccole, coperte di ciottoli e conchiglie, e nascoste fra grandi scogliere. Fra quelle rocce torreggianti, che sovrastano l’acqua, fanno il nido i gabbiani e le tortore selvatiche, di cui, specialmente al mattino presto, s’odono le voci, ora lamentose, ora allegre. Là, nei giorni quieti, il mare è tenero e fresco, e si posa sulla riva come una rugiada. Ah, io non chiederei d’essere un gabbiano, né un delfino; mi accontenterei d’essere uno scorfano, ch’é il pesce più brutto del mare, pur di ritrovarmi laggiù, a scherzare in quell’acqua.
Intorno al porto, le vie sono tutte vicoli senza sole, fra le case rustiche, e antiche di secoli, che appaiono severe e tristi, sebbene tinte di bei colori di conchiglia, rosa o cinereo.
Sui davanzali delle finestruole, strette quasi come feritoie, si vede qualche volta una pianta di garofano, coltivata in un barattolo di latta; oppure una gabbietta che si direbbe adatta per un grillo, e rinchiude una tortora catturata.
Elsa Morante, L’isola di Arturo, Einaudi, 1975, pagg. 12-13
Foto della libraia clandestina
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